lunedì 3 settembre 2012

Da qualche parte bisogna pur cominciare...


Esiste un modo per essere gay? Ahimè, credo proprio di no!
C’è il figo superpalestrato che si pompa i muscoli e gli addominali dalla mattina alla sera, barba disegnata, camicia aperta sul torace glabro oppure no, con quel filo di peluria che fa proprio tanto sexy.
C’è la checca fashion victim, che non esce senza i maxi occhiali da sole, come se tutte le vetrine fossero quella di Tiffany…anche se poi il cappuccino e il cornetto li evita perché, per carità, una botta di calorie del genere stenderebbe pure il metabolismo più in forma.
C’è l’intellettuale con la barbetta incolta, il golf sformato sopra la t- shirt a righe, libro sempre in mano e immancabile pacchetto di Marlboro light, che poi ci parli e l’esagerato gesticolare delle mani curatissime fa vedere quanto in fondo preferirebbe i lustrini e i tacchi alti.
C’è il ragazzino da pride, che a sedici anni sapeva benissimo chi era e cos’era. Che ha il fidanzatino un po’ più grande da tenere per mano, capelli sparati sugli occhi (magari ha rubato la piastra alla sorella), sguardo finto innocente svezzato da decine di porno scaricati sul netbook di papà…tanto poi basta cancellare la cronologia.
C’è lo sposato represso, l’etero curioso, l’eterno chattarolo che sta lì a spizzare fisici da rivista, nella speranza di guadagnarsi una sera alternativa a casa di uno sconosciuto carino, mentre la moglie è convinta che sia in ufficio preso tra lo schermo del computer, una birra troppo calda e il cartone della pizzeria.
E poi ci siamo noi. I gay ordinari, a cui non è saltato mai in mente di mettere piume e pallettes, né lenti colorate, né magliette il cui collo scende fino al petto. Siamo i gay della camicia abbottonata sopra i jeans un po’ scoloriti (ma sì, diamoci questo tocco alla moda), che vanno a lavorare troppo presto e rientrano a casa dopo il telegiornale delle 20 (l’avranno inventato per noi il tg di mezza sera?). Siamo quelli che iniziano la dieta il lunedì mattina e il martedì a pranzo è già andata a puttane, perché hai visto quei cavolo di supplì fumanti nella rosticceria sotto l’ufficio. Siamo quelli del divano sfondato e di una tazza di the con quell’amico che ti è venuto a rompere perché ha litigato con la ragazza; quelli di tua madre che chiama mentre tenti di chiudere la lavatrice troppo piena. Siamo quelli che la domenica pomeriggio di un autunno inoltrato s’incantano come babbei davanti ad un tramonto vicino al lago, e che nemmeno si ricordano che sarebbe stato meglio portarsi una sciarpa perché è novembre e quel raggio di sole pomeridiano era tutta un’illusione.
Non dico che lo sposato, il ragazzino, l’intellettuale, il figo o gli altri mille abitanti di questo matto macrocosmo non siano capaci di perdersi di fronte all’ultima luce di un giorno che muore, ma noi, a differenza loro, siamo quelli che da quel giorno non vogliono scappare.
Sappiamo benissimo che è qui che siamo e andare via da un mondo troppo acerbo per capire chi ama uno del suo stesso sesso non è ancora possibile. Niente razzi che ti catapultano su Marte, amici miei, niente capsule supersoniche per fuggire sulla luna. Sappiamo che arriverà la sera e che ci porterà a casa. Dove forse ci sarà quella chiamata dei tuoi per sentire come stai…o forse no, perché loro hanno deciso di non capirti quando gliel’hai detto. Entrando in casa forse vedrai la schiena di lui che tenta di accendere il gas, ma proprio non gli riesce…e sta già con il telefono in mano e il bigliettino della pizzeria tra le labbra. E sei fortunato se lui c’è, perché potrebbe essere soltanto un tuo sogno di normalità ad occhi aperti ed entrando troveresti solo la luce che hai scordato accesa e un po’ di lavoro da sbrigare per domani. Cavolo, è già lunedì domani! Eviteresti volentieri la sveglia alle 6, il caffè che non riesci a farti e il biscotto integrale che trangugi in ascensore. Altra camicia (che ti è venuta stirata di merda), cravatta azzurra che invece ti è sempre stata bene. Non capisci perché nell’ascensore ci sia sempre uno specchio, troppo indagatore, troppo inflessibile per essere solo le sette e mezza di lunedì. Ti aggiusti i capelli e non puoi fare a meno di guardare la stempiatura che avanza…ma chissenefrega, c’è un giorno che ti aspetta. Ma questo è il mio giorno…il giorno di Andrea.

Ho quasi 28 anni e non sai quanto c’ho messo a fare pace con l’essere omosessuale.
Un percorso da manuale, mi hanno detto.
Come al solito comincia tutto negli anni  del liceo. Classico il mio, in un paese di provincia né grande né piccolo. Facce conosciute, spesso sorrisi e saluti quando passi per strada. Tuttora ci sto bene, non sono uno di quelli che devono per forza scappare in città perché al di fuori dell’asfalto metropolitano nemmeno ti ascoltano. Pietro è il mio amico storico: pancetta da bambini viziati (o semplicemente amati), primi brufoli, primi porno sbirciati a luce spenta su un canale satellitare, prime emozioni: tutto insieme.
Salvo che a 16 anni gli ormoni ti girano dentro come fossero sull’autostrada e non gli dai peso se c’è la prima fidanzatina. Però capita anche che in un pomeriggio normale, nella tua stanza normale, sulla tua normale scrivania, con una normalmente indecifrabile versione di greco davanti, ci scappi un bacio con Pietro. Dato da lui, ovviamente. E che cavolo, non puoi non ricambiare! tanto sai di non essere gay. Anzi, un paio di volte – dopo che la storia si ripete sempre più spesso – te lo domandi anche ad alta voce: “mica saremo froci a fare ‘ste cose…?” Per tutta risposta, qualche secondo di silenzio seguito da una mezza risata nervosa e da un “macchè”che non mi ha mai convinto.
Abbiamo fatto l’amore per anni io e Pietro. Erano sempre i nostri dopo pranzo di compiti e di baci, che poi sono diventati tocchi furtivi e poi ancora carezze. Ci siamo trovati nudi a scoprire di piacerci e a far capire a lui che quel che facevamo era molto meglio di quel che provava con la ragazzina del momento. Chi tradiva chi? Il tradimento non è un pensiero degli adolescenti, la sofferenza del “terzo” non ti sfiora se sei sicuro di star seguendo il tuo cuore. Le ragioni del cuore, così le chiamano. Io c’ero molto prima di lei (mi pare si chiamasse Anna) eppure Pietro poteva baciarla davanti a tutti, tenerle la mano, far l’amore con lei senza dirmelo.
La mia sofferenza di quei mesi era una gelosia di quelle che bruciano e fanno male davvero; la senti scavarti nel corpo ancor più che nel cuore virtuale di cui parlano i poeti. Il mio mostro verde, però, tornava a dormire ogni volta che “studiavamo insieme”. Ero talmente secchione che non m’importava di fare i compiti anche per lui, purché ricevessi un bacio dalle sue belle labbra grandi, purché sentissi il suo respiro di piacere. Non m’importava di essere io il più delle volte a guidare le sue carezze, le sue dita tra i miei capelli e a spingere la sua bocca sul mio corpo. Eravamo noi in quel momento: mi illudevo di convincere entrambi che sarebbe stato possibile.
Ma poi cresci e vorresti che tutto questo crescesse con te. Ma a volte il tuo amore resta adolescente mentre tu diventi un uomo, senza possibilità di fermarti a guardarlo e a correggere i tuoi sbagli.
Vacanza insieme, noi e la solita combriccola di amici. Cerco di fargli quella domanda che è un sacco di tempo che gli ripeto, il più delle volte dopo aver fatto sesso, nella stupida speranza che la risposta sia più dolce. “Proviamo a stare insieme?” Stavolta glielo dico in una camera d’albergo in Puglia e il suo “sì”  è una gioia che non mi aspetto. Non voglio vedere però quanto sia detto a denti stretti, senza che gli occhi, la fronte, le labbra dicano veramente” si”.
Dura poco la mia felicità. Al ritorno è nervoso. Evade ogni domanda e si fa sentire meno di niente.
La doccia fredda arriva per telefono. Mi dice che forse i suoi iniziano ad intuire qualcosa, che ha paura, che forse sua madre ha tentato di affrontarlo apertamente sull’argomento. Gli dico la classica frase da soap, ma allora la pensavo davvero: “Possiamo essere spaventati insieme?” Non risponde, sono poche le volte in cui lo ha davvero fatto. Mi chiede tempo e glielo concedo.
Anni più tardi, una mia amica avrebbe detto che le pause di riflessione sono l’anticamera della fine in qualunque storia.

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